Di accenti e altre battaglie

A proposito della questione dell’uso del “sé” accentato in italiano, vorrei partire da questa replica di Stefano Bartezzaghi alla Crusca per riprendere la piccola riflessione iniziata ieri sulla nostra quotidiana battaglia col correttore ortografico degli smartphone, soprattutto con sistema touch.

Come dicevo, resta impressionante la capacità del correttore di “indovinare” le nostre intenzioni, a partire a volte da sequenze grafiche formalmente lontanissime dalla corrispondenza voluta, evidentemente grazie all’uso di un repertorio memorizzato, personalizzato persino, delle forme, ma anche a partire da alcune ricorrenti collocazioni (ad esempio la lettera “c” con l’aggiunta dell’apostrofo seleziona immediatamente l’esito “c’è”).

Ma è senz’altro vero che il servizio predittivo dello smartphone manifesta molte volte troppa solerzia e eccesso di zelo, propinandoci esiti non voluti sulla base di meccanismi vincolati e rigidi: compaiono automaticamente consonanti dopo il punto, ma non sempre le vogliamo; in alcuni servizi la punteggiatura immediatamente disponibile non va oltre il punto e la virgola; le parole che prevedono varianti accentate escono direttamente senza accento. E, sulla stessa scia, si è diffuso il “pò” con l’accento al posto dell’apostrofo.

C’è – paradossale – il caso dell’iPhone (ditemi se vale per altri) che, per i verbi, tende a selezionare di default la forma al passato remoto (non “parlo” ma parlò”: ma perché??), fatto stravagante a dir poco, dal momento che il tempo verbale in questione risulta abbastanza in recessione, almeno in alcune varietà diatopiche dell’italiano, e comunque di certo è poco frequente nella messaggistica rispetto al tempo presente.

Della impervia strada del “sé” e di altre parole accentate nella storia del texting andrà citato il costo superiore del carattere accentato rispetto a quello senza accento, fattore non irrilevante particolarmente nella prima epoca della messaggistica via telefono mobile, quando il messaggino si pagava e l’utente, in particolare il giovane (perennemente “senza credito”), controllava con cura che il numero dei caratteri non superasse i fatidici 160, per non pagare doppio.
Questo ha generato certa tendenza alla sciatteria grafica che ha in qualche modo influenzato la scrittura dell’era 2.0.
Ricordiamo anche che l’hashtag di Twitter non distingue la lettera accentata da quella senza accento, e ricordiamo che l’account di posta elettronica non ammette apostrofi o accenti (mi dicono che anche ruzzle non distingue e, già che sto citando Bartezzaghi, cognome della mia mitologia, l’enigmistica ci abitua in molti giochi all’uso indifferente della lettera di base per rappresentare anche la propria omologa accentata).

Tornando alla scrittura su schermo touch, chi tiene all’ortografia, specialmente se il messaggio ha un destinatario “altolocato”, deve profondamente impegnarsi nell’azione della scrittura.
Il che, nel caso della scrittura in movimento, equivale a rallentare il passo, fermarsi addirittura, correggere il testo cancellando, riscrivendo, a volte ricorreggendo, perché il correttore automatico sa essere incredibilmente ostinato.

Non sorprende così che anche ai più attenti sfugga l’errore ortografico, tra consapevolezza e sfinimento.
Altrimenti, per impegnarci nella opportuna difesa degli usi corretti, sarà sempre più difficile sopravvivere nella giungla metropolitana senza il supporto di guide pedonali (come il servizio Seeing Eye Person a New York) o senza il nuovo CrashAlert.

Francesca Chiusaroli, Scritture Brevi
26 maggio 2013

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Francesca Chiusaroli

About Francesca Chiusaroli

Sono nata a Recanati, dove vivo. Mi sono laureata a Macerata, dove oggi insegno linguistica. Tra allora e ora, altre sedi.

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